OLTRE LA SEGMENTAZIONE SU BASE ETNICA NEL MERCATO DEL LAVORO
La segmentazione su base etnica
del mercato del lavoro è il modello
di integrazione economica degli stranieri consolidatosi negli ultimi anni in Italia.
Le ragioni di questo
fenomeno si collocano tanto sul versante dell’offerta, sia straniera, che italiana, quanto
sul versante della domanda.
Sul versante dell’offerta
straniera, alcuni autori hanno spiegato le performance meno buone dei lavoratori immigrati, rispetto a quelli
autoctoni, attraverso il diverso rendimento del capitale umano.
Un’altra parte della
letteratura si è concentrata sul capitale sociale e sullo svantaggio che
i migranti avrebbero nel disporre di relazioni e canali di accesso nella ricerca di impiego, facendo
così affidamento soprattutto su risorse relazionali co-etniche, efficaci, ma al tempo stesso fortemente
releganti ai livelli inferiori della struttura occupazionale.
Sul versante dell’offerta di lavoro autoctono, d’altro canto, gli italiani dimostrano di rifiutare sempre più gli impieghi
meno retribuiti, faticosi, poco qualificati, umili
e ritenuti socialmente poco prestigiosi, innescando così
processi di sostituzione da parte dell’offerta straniera.
Il risultato è una
ghettizzazione occupazionale - ma anche simbolica e nella sfera
dell’immaginario - nei cosiddetti “mestieri da immigrati”.
In questa ottica, la segmentazione su base etnica
non è solo un processo
economico, ma anche,
e sempre più, il risultato di una profonda trasformazione culturale e simbolica, con effetti pesanti
e persistenti sul mercato del lavoro.
Lo studio dell’immaginario e del valore simbolico associato al lavoro,
a livello sia individuale che collettivo, tanto presso gli italiani quanto presso i nativi, risulta
pertanto un aspetto
fondamentale da prendere in considerazione per comprendere in profondità i cambiamenti in atto nel mercato del lavoro italiano.
Anche la domanda di lavoro espressa dagli imprenditori italiani, però, ha subito
e continua a subire
profonde trasformazioni.
Il ricorso al lavoro immigrato
non è solo un ripiego
necessitato, ma in molti casi appare come il frutto di
scelte e strategie consapevoli. In particolare, il reclutamento sistematico di lavoratori e lavoratrici stranieri sovra-qualificati, così come emerge anche dalle
nostre interviste, sembra costituire un vantaggio competitivo per le aziende
italiane.
Queste arrivano così a disporre di personale con un capitale umano
superiore a quello
richiesto dalle mansioni
ricoperte, che, sebbene
a costo di forti esternalità negative, può generare
un valore aggiunto
specifico e immediato sotto
forma di capacità
di apprendimento e performance sul
lavoro.
Dal punto di vista della
produttività complessiva, il modello di integrazione economica degli stranieri in Italia seppur
vantaggioso nel breve e medio termine, pone seri problemi di sostenibilità sul lungo termine.
L’utilizzo che le imprese fanno del lavoro immigrato è rivelatore delle
strategie competitive dell’Italia: fino
ad ora le aziende hanno
puntato sul lavoro (immigrato) a basso costo
come sistema alternativo agli investimenti in modernizzazione e innovazione dei processi produttivi, in tecnologie, in ricerca e sviluppo.
Si tratta però di una
strategia miope, sia perché questo
sistema produttivo è destinato a diventare sempre
più obsoleto e sempre meno competitivo, sia perché i migranti stessi,
soprattutto quelli più istruiti, non si dimostrano nel tempo disponibili
ad accettare le stesse condizioni svantaggiose.
A lungo andare, l’attuale
modello di integrazione economica non è conveniente e forse
neppure sostenibile neanche
per i migranti stessi.
Il modello attuale,
permette alle imprese italiane di risparmiare sulla
manodopera, ma impone
costi molto elevati
a carico dei lavoratori stranieri.
Ci sono tuttavia
segnali che questi
ultimi sviluppino nel tempo
aspettative
professionali sempre più simili a quelle dei locali, diventando a loro volta più
selettivi e tendendo ad allontanarsi dai posti di lavoro più faticosi, meno pagati, con minori
prospettive di miglioramento.
La disponibilità illimitata alla dequalificazione e alla segregazione occupazionale viene meno, l’asticella delle aspettative occupazionali
si alza.
Alla massimizzazione immediata del reddito, si antepongono strategie di miglioramento più ampio della qualità
del lavoro e delle condizioni di vita. Ancor più impensabile è che ad accettare le condizioni e i posti di lavoro offerti attualmente agli stranieri, siano i
figli di questi stessi stranieri, nati, cresciuti e socializzati in Italia, dunque sprovvisti in partenza di quella dose di “fame”
che ha reso i padri
disposti a pesanti sacrifici e resilienti
alle condizioni più dure.
La crisi potrebbe frenare questa spinta emancipativa e questa domanda di mobilità
socio-lavorativa ascendente, ma difficilmente la bloccherà.
Per evitare conflitti
etno-generazionali, è bene assecondare questa legittima spinta, anziché
contrastarla difendendo, più o meno esplicitamente, la rigida segmentazione su base etnica
e nazionale del nostro mercato
del lavoro.